E’ opportuno analizzare il rapporto tra il concetto di lavoro e la personalità in un individuo ed i meccanismi psicologici che il lavoro sollecita nell’arco della vita di una persona.
Sono un cuoco qualificato, specialista (non riconosciuto) in vitto, traduttore, scritore, fotografo, recruiter, barista e gamer. Per esser tutto questo ho studiato, ho superato esami, ho creato, ho rinunciato, ho pagato, ho letto ho sacrificato. Tuttavia, quando qualcuno mi chiede “che cosa fai nella vita?”, trovo una certa difficoltà a rispondere. Qual è la mia reale occupazione? Chi lo decide? Quale lavoro mi identifica? Quello che mi garantisce maggiore guadagno? O quello per cui impegno più tempo? O quello che mi piace di più fare? Le risposte non coincidono.
l’identità fa riferimento a chi l’individuo pensa di essere e che annuncia al mondo in parole e azioni. Definirsi in base alla propria funzione vuol dire in qualche modo affermare che noi siamo il nostro lavoro. Ecco perché il lavoro stesso influenza l’individuo e lo sviluppo della sua personalità ed è l’elemento essenziale per costituire la propria identità individuale.
Basta pensare al nostro parlare quotidiano, quando conosciamo persone nuove tra le prime informazioni affermiamo “chi siamo” nei termini di “cosa facciamo” nella vita. Questo indica proprio come l’attività lavorativa svolta da ciascuno sia un potente indicatore di molte qualità personali e sociali per gli altri, ma soprattutto per noi stessi. E se una persona non ha lavoro? Se non ha una funzione che lo identifica? I ruoli formano la consapevolezza di ciò che siamo, dunque è inevitabile una crisi sul piano personale.
Affermava Dostoevskij (filosofo russo): “Se vuoi trasformare un uomo in una nullità, non devi fare altro che ritenere inutile il suo lavoro”. Ed è proprio il senso di inutilità legato alla condizione di disoccupato, o di precario, che alimenta il senso di non realizzazione di sé, che sgretola col tempo lo sviluppo di una parte di noi stessi ricca di risorse. La persona a cui va stretta la propria identità prova spesso sentimenti di depressione, infelicità. L’importanza del lavoro va considerata su due fronti: come mezzo per sostenersi e sopravvivere, come mezzo per definirsi, per diventare autenticamente se stessi.
Non è dunque una forma di felicità poter amare il proprio lavoro? Lo stato dovrebbe mettere nella condizione di trasformare una propria passione, un proprio interesse, una propria competenza in un lavoro; quando questo non è possibile si dovrebbe cercare almeno di valorizzare la risorsa umana all’interno di un contesto in modo da farle utilizzare o scoprire i propri talenti. Se diamo valore ad una persona, la persona darà valore al suo lavoro e il lavoro valorizzerà lei: si innescherà quel circolo per cui un sentimento di realizzazione di sé andrà a spingere su un sentimento di realizzazione del paese.
Parlando di felicità, il World Happiness Report spiega come la felicità sia sempre meno misurabile con i noti parametri: salute, affetti, benessere.
Nel report si dà anche molto spazio alle emozioni positive – calma, pace, armonia – ed a come queste contribuiscano in modo significativo alla soddisfazione generale della vita, ribadendo però come per gli occidentali la Felicità coincida in primis con il soddisfacimento dei propri obiettivi professionali.
Allora almeno per noi europei ed americani, aveva ragione Confucio: “Scegli il lavoro che ami e non lavorerai neppure un giorno in tutta la tua vita”? Forse.
Ma il lavoro pare, se guardiamo nel dizionario il termine opposto alla felicità: Lavoro deriva dal latino: labor – fatica. Ma come essere felici, pur lavorando? Il tema è noto e da qualche anno (dopo il COVID-19) le Aziende lo stanno affrontando con grande energia. Ad esempio il aver mantenuto la possibilità di lavorare da casa, dare più flessibilità e aumentare i welfare aziendali.
La relazione tra lavoro e felicità è necessaria per l’80% degli intervistati e per la quasi totalità (97%), essere felici, rende anche più produttivi, emerge dalla survey di Glickon. E poi, ci sono altri dati rassicuranti: ben oltre il 66% si dichiara contento della posizione che occupa. Per il 34% – quella posizione –, rappresenta effettivamente ciò che sognava di fare, mentre il 37% si è adattato, ma si ritiene comunque soddisfatto e sereno.
Cosa ci rende però felici del nostro lavoro? La più importante, le relazioni con i colleghi e l’ambiente lavorativo (30%), seguite dalle attività specifiche di cui ci si occupa (28%), e da flessibilità, benefit e stipendio (23%).
Infine, la valorizzazione del talento e l’attenzione verso il proprio percorso di crescita (19%) e qui c’è ampio margine di miglioramento, soprattutto oggi, che è in atto una vera e propria corsa ai talenti
Referenze:
John P. McClure & James M. Brown (2008) Belonging at work, Human Resource Development International, 11:1, 3-17, DOI: 10.1080/13678860701782261
https://www.ansa.it/canale_lifestyle/notizie/societa_diritti/2023/03/19/felicita-e-lavoro-binomio-vincente-o-sogno-impossibile_f0ab8544-84aa-4b76-9a81-de93466d7aa3.html